Il nostro cervello e la sua capacità di adattamento alla realtà, tra tecnologie e nuove sfide. Parla il prof. Alleva: “Vi spiego la neuroplasticità”

cervello

Non c’è organo più misterioso e al tempo stesso più affascinante del cervello. Parliamo, d’altronde, dell’organo che ci rende compatibili con l’ambiente in cui viviamo. Tale incredibile capacità di adattamento prende il nome di «neuroplasticità», intesa come proprietà che consente al cervello di modificare la propria struttura e il proprio funzionamento in risposta all’attività e all’esperienza mentale. Abbiamo provato a capirne di più, cercando di comprendere quali sono i progressi in ambito scientifico, quali sono le ultime scoperte nell’ambito neuro-rigenerativo e, soprattutto, quali sono i consigli per mantenere una vita cerebrale attiva anche con l’avanzare dell’età. E lo abbiamo fatto con il professor Stefano Alleva, uno dei massimi esperti a livello internazionale. Il curriculum di Enrico Alleva, allievo di Rita Levi Montalcini, è sterminato: ex presidente della Società Italiana di Etologia, presidente della Federazione Italiana delle Scienze Naturali e Ambientali (FISNA), membro dei consigli scientifici di ANPA, Legambiente, Istituto della Enciclopedia Italiana “Giovanni Treccani”, Dipartimento CNR “Scienze della vita”, socio corrispondente dell’Accademia nazionale dei Lincei per la Sezione Genetica ed Evoluzione, dell’Accademia Medica di Roma e dell’Accademia delle scienze di Bologna, e membro del Comitato Scientifico della Fondazione BRF.

Professore, partiamo da principio: cosa intendiamo per neuroplasticità del cervello?
Innanzitutto il cervello è l’organo di integrazione di tutto il corpo dei vertebrati. È quell’organo che reagisce all’ambiente e dunque si aggiusta a sua volta. Rende di fatto l’organismo compatibile con l’ambiente e, soprattutto, con l’ambiente che cambia. Questa è l’essenza della plasticità: il nostro ambiente cambia continuamente e, dunque, anche noi dobbiamo “aggiustarci” a tali cambiamenti.

Come avvengono tali “aggiustamenti”?
Il cervello è costituito da tanti neuroni, che si connettono in una maniera che si modifica continuamente, attraverso gli assoni e attraverso piccoli derivazioni che si chiamano dendriti. E qui abbiamo una miriade di sinapsi che, come i fiori fioriscono e appassiscono. Questo è l’ultimo livello, il più alto, dove il cervello si aggiusta e si adatta. Le faccio un esempio.

Mi dica.
Noi oggi ci siamo conosciuti. Io ricorderò il suo nome e viceversa. Ecco: di mezzo ci sono le sinapsi.

Quali sono le conseguenze con l’avanzamento dell’età per questa capacità di adattamento del cervello e, dunque, dell’essere umano stesso?
Innanzitutto c’è da dire che, come ricorda sempre la scuola darwiniana, il grande aggiustamento al nostro ambiente avviene quando siamo piccoli: di cosa avere paura, quali sono i nostri riferimenti, ecc. sono parametri che iniziano anche prima dell’adolescenza. Noi ci diamo una “regolata” su quale sarà il nostro mondo già allora. Poi via via che viviamo le nostre esperienze confrontiamo quanto ci è capitato con la fase iniziale di regolazione. Ovviamente il mondo cambia e l’anziano perde alcune di queste capacità. Però c’è da fare una precisazione.

Cioè?
Quello che è sempre stato insegnato, e cioè che la plasticità è massima quando si è molto giovani e si chiude come processo quando si diventa anziani, sostanzialmente non è vero: noi siamo sempre plastici, quello che cambia sono i tempi del «fenomeno plasticità». I tempi con cui “si aggiusta” un anziano sono molto più lunghi dei tempi con cui “si aggiusta” un bambino. Quello che si chiamava «fine del periodo di plasticità», in realtà non esiste: abbiamo visto, infatti, che il fenomeno della plasticità è sostanzialmente lo stesso, solo molto più lento.

Eppure secondo l’immaginario collettivo quando si è anziani si perde la capacità di adattamento…
A riguardo ci sono due filosofie: una ottimistica e una pessimistica. Partendo da quest’ultima, si pensa che il sistema si è usurato per il troppo consumo. Come la nostra pelle perde di plasticità, così possiamo pensare che le sinapsi perdono plasticità. Quella ottimistica si muove in una direzione contraria: a forza di aggiustare, abbiamo trovato una forma che è sempre più definitiva perché abbiamo una storia di vita. Dunque, ci è difficile cambiarla. La battuta è: io non ricordo più i numeri di telefono perché non sono più capace di ricordarli o perché ne ho ricordati talmente tanti che non ho più spazio per farlo?

Secondo lei quale delle due versioni è vera?
Secondo me sono vere entrambe le cose. Però va detto che, al di là dei farmaci, avere un atteggiamento “giovanile” nei confronti di quello che succede nell’esistenza anche da anziano, è un elisir di buona plasticità. A parte la battuta sul risolvere le parole crociate, in generale un invecchiamento attivo è quello che garantisce una plasticità continua. Oggi, grazie ovviamente anche ai progressi farmacologici, le persone arrivano facilmente a superare gli 80 anni e abbiamo un numero di centenari ragguardevole in Italia, dunque conservare le capacità cognitive è importante perché, come diceva un cardinale, il problema prima era arrivare in vecchiaia ed essere freschi, adesso è quello di non essere fresconi.

Se dovesse dare dei consigli utili per un sano processo neuro-rigenerativo cosa direbbe?
Sappiamo che i fattori principali sono essenzialmente tre: avere una vita con una sua regolarità; avere una vita con una rete affettiva nutrita; avere una regolare e buona alimentazione. Questi sono i tre parametri che la biomedicina contemporanea prescrive, ricordandoci che il picco di probabilità di avere alcune malattie molto invalidanti è intorno agli 85-90, dunque una volta scavallata quell’età la probabilità diminuisce. Il “viaggio” tra i 90 e i 100 è meno complicato rispetto a quello tra gli 85 e i 90.

A proposito di longevità, lei è stato allievo di Rita Levi Montalcini. Che ricordo ha di questa grande scienziata?
Guardi, mi sono stati chiesti tempo fa, in un’intervista per RaiStoria, due aggettivi per descriverla. Il primo è stato “femminile”: era una persona estremamente femminile; il secondo è stato “dedicata”, ma non al lavoro, ma a capire come funzionava il cervello, in una maniera così totalizzante che non sembrava neanche monomaniacale perché sembrava così naturale questa curiosità. Gli esperimenti lei li proponeva come se l’idea fosse arrivata da un sogno e ogni volta era un esperimento molto importante. Aveva un incredibile “naso” per portare avanti esperimenti importanti i cui esiti chiarivano passaggi cruciali in ambito scientifico.

Tornando al processo neuro-rigenerativo: negli ultimi anni si è fatto un gran parlare delle cellule Staminali. Qual è stato l’effettivo supporto di tali teorie?
Ha ragione: c’è stata un’esplosione di curiosità nei riguardi delle staminali. Innanzitutto dobbiamo ricordare che le prime cellule staminali sono state scoperte a New York, alla Rockfeller University, perché un gruppo di ricercatori vedeva che nel cervello del canarino maschio adulto ogni primavera spuntava un gruppo cerebrale che controllava il canto e poi scompariva, e poi si rigenerava. E questo andava contro quelle visioni degli anni ’80 in cui si diceva che i neuroni, passato il periodo giovanile, non si potevano più generare. Da lì è esplosa una curiosità enorme nei confronti delle staminali, che potevano essere riattivate. A quel punto è fiorita da una parte una grande speranza in merito a cure mediche, nella lotta contro le malattie neurodegenerative e, dall’altra parte, una necessaria e fisiologica delusione per il fatto che poi si è visto che queste cellule non si riescono a governare, sono relativamente poche e vengono utilizzate soprattutto in un periodo di costruzione del cervello più che in un periodo di mantenimento. Tutte queste visioni ottimistiche, dunque, non si sono consolidate. E dunque ora abbiamo una fase contraria, in cui non si capisce bene a cosa servano le staminali. Poi, probabilmente, ci sarà un altro periodo di progresso a riguardo. Però bisogna stare attenti: noi abbiamo assistito a quel terribile fenomeno di sfruttamento economico con l’idea che malattie attualmente incurabili potessero essere sconfitte, una brutta fase nella quale peraltro anche la politica mise bocca in campo scientifico facendo poi una pessima figura.

Qual è l’impatto delle nuove tecnologie e della vita frenetica che spesso oggi si conduce sulla neuroplasticità?
Se lei lo chiede a un etologo, l’etologo non fa altro che rimproverare, come scrisse anche Konrad Lorenz, tutto quello che la cosiddetta “modernità” prescrive perché va contro la nostra storia naturale e cerebrale. L’eccessivo multitasking; la frenesia che distrugge quel tessuto di rapporti familiari, amicali e sociali; l’addensarsi in città sempre più grandi ma sempre più anonime; tutto questo fa molto male a un cervello che non è pronto ad aggiustarsi in questo senso. E dunque c’è una sofferenza mentale, se non un vero e proprio danno.

È curioso che anche l’essere multitasking sia dannoso. Nell’immaginario collettivo spesso e volentieri si pensa il contrario…
Sì, ma c’è un limite. La mamma che butta un occhio al bambino mentre cucina fa parte della storia della donna carvenicola; quello che guarda il telefono mentre sta guidando e nel frattempo parla anche con qualcuno in macchina, no. L’etologo ritorna al famoso uomo del Pleistocene e si chiede: cosa faceva l’uomo del Pleistocene? Ecco torniamo a comportarci in quella maniera perché la nostra storia evolutiva più o meno si è fermata lì, non è che siamo diventati così diversi.

Che effetto hanno, invece, i sistemi informatici?
Il problema è l’eccessivo utilizzo di sistemi come pc e telefonini, soprattutto nella fascia di età tra i 3 e gli 8 anni. Lì si rischia di non far allenare il cervello ad alcune sue prestazioni che poi è difficile recuperare. L’utilizzo di strumenti informatici, videogames e social, se portato all’eccesso, impedisce un rapporto sociale naturale in cui io vedo le espressioni mimiche della faccia o sento i feromoni del mio interlocutore. Cose che ovviamente non ho se parlo su Facebook, per capirci. Tutto questo va contro la plasticità della mente e non ci fa bene.

Vita sociale e, per così dire, naturale da una parte; e vita “tecnologica”: un aut-aut oppure è possibile una mediazione?
Non direi un aut-aut. L’uomo è tecnologia da Prometeo in poi, dopotutto. Il punto è che qui deve subentrare la politica e, direi, anche la morale per porre dei limiti dove ce n’è bisogno.