Terrorismo e psichiatria, ecco qual è il profilo del kamikaze e che ruolo gioca il leader. Intervista alla professoressa Marazziti

 

Che rapporto c’è tra male, terrorismo e psichiatria? E, soprattutto, come può la conoscenza psichiatrica affrontare il fenomeno terroristico? Sono questi i temi che hanno mosso la professoressa Donatella Marazziti (professoressa presso l’Università di Pisa e la Unicamillus di Roma) e il professor Stephen Stahl, membri del direttivo – insieme al presidente Armando Piccinni – della Fondazione BRF. Da questi studi è nato un libro, Evil, Terrorism and Psychiatry (Cambridge University Press) che, come spiega in questa intervista la professoressa Marazziti, «mira a sondare il fenomeno terroristico, a capire il profilo del terrorista e ad affrontare il problema anche in ottica preventiva».

Partiamo da principio, professoressa. Come mai ha deciso di dedicarsi a questo tema?
L’interesse è nato dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York. Parliamo, d’altronde, di un fenomeno che ha sconvolto l’Occidente e non solo.

Donatella MarazzitiCosa ha rappresentato per lei l’11 settembre 2001?
L’attacco terroristico dell’11 settembre rappresenta, a mio modo di vedere, uno spartiacque tra un periodo di benessere e di pace e un periodo di incertezza che ancora oggi viviamo, in cui non ci si sente più sicuri neanche a salire su un aereo, oppure anche ad andare a un mercatino di Natale o a un concerto.

Perché è necessario che la psichiatria fornisca delle risposte a riguardo?
Sia gli psichiatri che gli psicologi si sono trovati senza dubbio impreparati ad affrontare questo fenomeno. Ma ho notato anche una certa riluttanza nell’approfondire questi aspetti così aggressivi dell’animo umano. Invece come studiosi e psichiatri non possiamo più esimerci dall’affrontare questo fenomeno. Proprio per questo insieme ad altri colleghi, a cominciare dal professor Stephen Stahl dell’università di San Diego in California e di Cambridge (Uk), abbiamo pensato di fare il punto della situazione, vale a dire mettere insieme vari specialisti per affrontare il tema da diversi punti di vista.

Da qui è nato il libro.
Esattamente. Il saggio è stato pubblicato dalla Cambridge University Presse e si intitola Evil, Terrorism and Psychiatry. È un tentativo di cercare di spiegare il male, cioè l’aggressività che c’è nell’animo umano e che è normale quando viene finalizzata al bene, per cercare di capire come possa diventare un fenomeno dirompente, che distrugge la vita di chi la perpetra e di tanti altri innocenti, e come la psichiatria possa aiutare a capire il fenomeno terroristico anche da un punto di vista di prevenzione del fenomeno stesso che, inutile dirlo, non è finito.

Quali sono le risposte a cui si è giunti?
Da un punto di vista psichiatrico e psicologico i dati sono molto pochi. Abbiamo però tentato di offrire una spiegazione, delle ipotesi che sono lì pronte ad essere avallate da dati veri che mancano. Dei terroristi che non si sono immolati e sono sopravvissuti, infatti, i casi sono veramente pochi. Ci sono solo dei dati raccolti in Israele. E ci sono anche pochi terroristi rimasti vivi negli ultimi attentati. In Francia, ad esempio, ce n’è solo uno (Salah Abdeslam, ndr). Così come uno dei pochi sopravvissuti è Anders Breivik in Norvegia. Abbiamo avuto molta difficoltà a trovare qualche collega scandinavo che si occupasse di questo caso, ma alla fine ce l’abbiamo fatta.

Com’è un terrorista tipico?
Non c’è un background politico, né uno sociale o culturale. Il terrorista può essere ricco o povero, può provenire da una famiglia disagiata o benestante, può avere un’alta o bassa educazione. Non esiste un profilo sociologico che mi permetta di dire che queste persone sono a rischio di diventare terroristi oppure no. Molto spesso, soprattutto in Europa, si tratta di persone di seconda generazione, i cui nonni erano immigrati, e che dunque hanno avuto la possibilità di avere una cultura locale molto elevata e una professione altrettanto elevata. Pensiamo all’attentato delle Torri Gemelle: uno dei terroristi era un pilota, aveva studiato all’università e così via.

È possibile, però, avere dei domini psicologici comuni?
Abbiamo pensato alla psicopatologia, ma i dati disponibili ci dicono che non esiste una patologia psichiatrica o un temperamento o una tipologia di personalità che possa spiegare come mai una persona perda l’istinto di morte e diventi esso stesso uno strumento di distruzione di massa. La psicopatologia non ci aiuta, e neanche la psicologia e la sociologia non ci aiutano. E allora dobbiamo far riferimento, forse, a quelli che sono i due istinti primari che regolano l’animo umano: da una parte la spinta al bene, dall’altra la spinta al male, cioè l’aggressività. Compito di ogni essere umano è gestire appieno queste due istanze, connaturate all’uomo e utilizzarle nel miglior modo possibile.

Cosa si intende per aggressività?
Quando si pensa all’aggressività, si pensa alla bestialità, alla ferocia. Ma non è così. L’aggressività è anche un valore importante che permette l’affermazione di noi stessi.

Quando l’aggressività diventa distruttiva?
Quando non è accompagnata da un’altra caratteristica umana, che è il senso morale. È inutile dirlo: tutti gli esseri umani hanno un senso morale innato, come diceva anche Immanuel Kant. Tutte le società umane condannano l’omicidio, il suicidio, l’incesto. Per molti filosofi la società stessa nasce nel momento in cui si mettono delle regole che limitano omicidi, suicidi, eccetera e che danno concretezza al senso morale. Probabilmente nei soggetti molto aggressivi come sono i terroristi, non si sviluppa il senso morale. E al tempo stesso si sviluppa quel concetto psicopatologico che si denota come psicopatia.

Chi sono gli psicopatici?
Sono soggetti in cui manca lo sviluppo del senso morale, non sono empatici, non provano pietà. Sono personalità particolarmente vulnerabili, se si trovano in particolari condizioni di sradicamento, isolamento. E se, sulla loro strada, incontrano e vengono reclutati da leader malvagi. Il problema del terrorismo, oltre alla vulnerabilità individuale dovuta alla psicopatia, è senza dubbio quello del leader, è l’altro attore fondamentale del fenomeno.

Che ruolo riveste in questo quadro il leader?
Il leader è lo psicopatico più grave, ha un delirio e dentro di sé fomenta l’odio verso valori della società alimentati anche dal fondamentalismo religioso. Se l’esecutore materiale, colui che si mette la cintura e si fa esplodere, è lo psicopatico soggiogato dal leader, l’altro attore importante, per il quale esistono più dati certi, è il leader che probabilmente è un malato psichiatrico che ha bisogno di cure.