30 Mar
Quando ho conosciuto M. sapevo che abortire in Italia fosse una cosa complicata. Avevo letto diverse inchieste e seguito alcune storie in prima persona. Il labirinto in cui una donna decisa ad abortire precipitava mi sembrava tutto sommato banale nella sua ripetitività. I medici obiettori che affollano gli ospedali (capolista è il Molise con il 93,3% dei medici obiettori, ma la media italiana è comunque uno sconfortante 70%), gli ospedali che non sono in regola con la 194 (in effetti è una legge che ha solo 38 anni, dunque è piuttosto logico che solo il 60% degli ospedali italiani garantisca l’Ivg), i posti letto che non sono abbastanza e che concorrono a rendere ancora più difficile agire entro i termini di legge (tre mesi), l’aborto che è una questione medica che continua ad essere tratta come una questione morale (come ha ben raccontato la bioeticista Chiara Lalli).
Quando ho conosciuto M., quasi tre anni fa, il decreto legislativo del 15 gennaio 2016che prevedeva la depenalizzazione dell’aborto clandestino per aumentarne di 200 volte la sanzione (da 51 euro a 5/10mila) era impensabile. E impensabile (ma forse prevedibile) era anche che la politica avrebbe del tutto ignorato le rivolte popolari, perché forse per farsi ascoltare né la piazza tradizionale né la piazza di twitter hanno peso per #obiettarelasanzione.
Quando ho conosciuto M., dicevo, non sapevo quello che segue un aborto.Conoscevo la pratica ospedaliera – sia attraverso aspirazione che raschiamento, che tramite Ru486 – ma non quello che ne seguiva, e che è angoscia e disperazione e malinconia.
Parliamo spesso di baby blues, la depressione post-partum, che affligge circa l’8-12% delle neomamme. Ma nessuno parla di no-baby blues. È come se l’aborto – nonostante le rivoluzioni, e il tempo che stiamo vivendo – continui a essere un tema tabù. Un tabù dannoso soprattutto per le donne, che in una società sempre più femminista e contemporaneamente sessista, pagano il dazio più grande. Una violenza psicologica che forma una cicatrice indelebile fra le loro gambe, e nel loro cuore.
Ne ho parlato allora con la Prof.ssa Donatella Marazziti, psichiatra e responsabile ricerche della Fondazione BRF Onlus – Istituto per la ricerca in Psichiatria e Neuroscienze – per cercare di fare un po’ di luce in quella notte che travolge le donne, e le risucchia via. Quel vuoto di cui nessuno vuole parlare. “L’interruzione volontaria di gravidanza – spiega Donatella Marazziti – è caratterizzata dalla solitudine psicologica della donna che si trova di fronte a problematiche che coinvolgono non solo la soppressione di un figlio potenziale, ma anche la sua sessualità, il suo ruolo, il rapporto col partner, il futuro della relazione. Ovviamente è importante anche il significato che la donna dà alla gravidanza, intanto se è voluta o frutto di violenza, se viene considerata un ostacolo alla realizzazione personale o un completamento della donna stessa e della relazione, e di come l’ambiente percepisce l’evento”. Al momento non esistono degli studi specifici in grado di ricostruire questo argomento che ben si presta a interpretazioni e manipolazioni ideologiche (solo negli USA si stanno sviluppando delle ricerche relative alle condizioni di depressione e ansia in donne che hanno scelto l’aborto, o lo hanno praticato per questioni terapeutiche).
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