San Valentino, così il nostro cervello “si innamora”. Cosa scatta nella nostra mente? Le risposte a tutte le nostre domande

psichiatria personalizzata

*di Donatella Marazziti (articolo tratto dall’ultimo numero di Professione Sanità)

 

“Gli uomini devono sapere che dal cervello e solo dal cervello derivano piacere, gioia, riso, scherzo, così come tristezza, pena, dolore e paure. Grazie al cervello noi possiamo pensare, vedere, sentire…”. Senza dubbio l’affermazione di Ippocrate, uno dei medici più famosi dell’antichità e a cui si attribuisce il giuramento tuttora declamato dai neolaureati in Medicina, può sembrare confortante, perché fa pensare che praticamente da sempre si sapesse che il cervello è la sede delle emozioni, in effetti non è così: per lungo tempo, emozioni e pensiero sono stati a lungo considerati espressioni di processi diversi, localizzati in organi distinti e, quindi, profondamente antitetici.

 

Per quanto riguarda l’amore, gli antichi greci ritenevano che fosse necessario l’intervento di un dio, Eros, che si divertiva a scagliare le sue frecce sui miseri mortali, rendendoli schiavi della passione, come se l’ amore dipendesse da un fattore esterno all’ uomo, in grado di soggiogarlo contro la sua volontà. Eros viene rappresentato con le sembianze di un bambino, eppure, sotto l’ aspetto innocente, nasconde un’estrema crudeltà che si manifesta con le ferite laceranti delle sue frecce che non risparmiano né dei, né uomini. È chiaramente implicito in questa concezione un giudizio negativo sul sentimento amoroso, che si estende anche alle altre emozioni, considerate di gran lunga inferiori al pensiero logico. Platone, così come tanti altri filosofi e poeti, si scaglia contro Eros nel “Convivio” e lo considera un demone nato da povertà ed espediente, sempre agitato ed insoddisfatto.

Se prima il dibattito era di competenza filosofica, nell’ultimo secolo si è andato progressivamente spostando in ambito scientifico e poi neuroscientifico, fino ai nostri giorni, in cui vediamo che la ricerca biologica non fa che aggiungere tasselli al complesso mosaico dei meccanismi nervosi delle emozioni.

 

Oggi sappiamo di essere innamorati perché ce lo dice la corteccia cerebrale che è in grado di interpretare nella maniera giusta il batticuore e la sensazione di svenimento che ci prende quando incontriamo il nostro partner e che sa distinguere benissimo che questo stato d’animo, pur presentandosi con le stesse modalità, non è la reazione da paura che proviamo quando siamo spaventati da qualcosa o qualcuno. Anche se l’amore nasce nel cervello, però, senza sintomi periferici non ci sarebbe nulla da interpretare: questo vuol dire che il corpo è il teatro delle emozioni.

Quindi, solo dalla perfetta armonia ed integrazione delle varie componenti del nostro organismo derivano le emozioni ed i sentimenti e solo la corretta interpretazione che ne dà il nostro cervello ne rende possibile la consapevolezza, acquisizione umana che, a sua volta, è alla base della progettualità, della pianificazione delle strategie ed anche del controllo delle emozioni troppo dolorose, come avviene nel caso dell’ amore quando il sentimento non è ricambiato.

Molto recentemente, i possibili substrati anatomici dell’amore sono stati esplorati con le più moderne tecniche di indagine della funzionalità cerebrali, quali la tomografia ad emissione di positroni (PET), ma siamo in una fase molto iniziale, anche se promettente.

 

Mettendo insieme tutti i dati attualmente disponibili, possiamo dire che strutture come i lobi frontali, il lobo limbico e, in particolare, l’amigdala, l’ippocampo e le aree del setto, sembrano svolgere un ruolo fondamentale nell’elaborazione delle emozioni legate alla passione amorosa, anzi, qualche neuroscienziato parla di un vero e proprio circuito dell’amore che coinciderebbe con quello del cervello sociale. Non tutto il lobo frontale, però, sembra così importante, ma solamente le parti più anteriori, poste davanti all’area che regola il movimento volontario, e che si chiamano prefrontale ed orbito-frontale. Individui con lesioni circoscritte in queste zone mostrano, infatti, un’intelligenza normale, memoria e linguaggio immodificati, raziocinio pressoché intatto, ma una ridotta capacità di prendere una qualsiasi decisione, insieme ad un appiattimento delle emozioni e dei sentimenti. Il ruolo dell’amigdala nell’elaborazione delle emozioni, ancora, è emerso fin dai primi esperimenti compiuti su scimmie a cui venivano asportati chirurgicamente i due lobi temporali in cui sono contenuti appunto amigdala e ippocampo. Gli esperimenti hanno mostrato il legame tra queste zone e la nostra docilità. Esistono descrizioni di pochi pazienti con lesioni limitate dell’amigdala che però sono molto interessanti: tali individui mostrano disturbi del comportamento emozionale e sociale e, in particolare, manifestano una profonda alterazione della capacità di valutare gli aspetti più sottili e qualitativi delle emozioni ed il significato affettivo di quanto accade intorno a loro: si parla a questo proposito di “cecità affettiva”. C’è, poi, l’area del setto. Negli animali da esperimento la stimolazione di queste aree con elettrodi evoca le cosiddette reazioni da piacere: gli animali, inoltre, se liberi di autostimolarsi, trascurano ogni altro attività, perfino di mangiare e bere.

 

Nell’uomo non sono stati ancora trovati dei centri specifici del piacere, anche se le prime indagini sembrano evidenziare che le emozioni positive possono attivare numerose aree cerebrali, oltre alle “classiche” aree del setto e del lobo limbico già menzionate, e in particolare il circuito dopaminergico che dai nuclei tegmentali va al nucleo accumbens e alla corteccia cerebrale. Senza dubbio il piacere, così come la sofferenza, è un’emozione complessa e non c’è da meravigliarsi troppo che non esistano, almeno nell’uomo, centri del piacere veri e propri, ma che questa sensazione sia il risultato dell’attività di tante aree cerebrali.

 

È tuttavia affascinante, e non fantascientifico, come qualcuno potrebbe pensare, sostenere che certe emozioni, come l’innamoramento e l’amore, vengano ricercate spontaneamente perché attivano dei circuiti cerebrali in grado di suscitare sensazioni positive e di benessere, mentre altre vengono evitate proprio per il motivo opposto. Ancora più affascinante è constatare che si tratta di una ricerca spontanea: non ce lo deve insegnare nessuno che amare ed essere riamati rappresenta la gioia più grande della vita, superiore ad ogni gratificazione economica o successo personale, è una consapevolezza iscritta da sempre nella nostra memoria umana.