La ricerca sulla dipendenza da web su Treccani

Internet. Cosa faremmo senza? Come riusciremmo a lavorare, a studiare, a interagire con il mondo senza essere connessi per ore e ore al giorno? Detta così, sembrerebbe una realtà – la nostra – decisamente triste. Davvero non possiamo passare 24 ore senza connetterci, senza sbirciare Facebook, senza consultare Wikipedia? Non è esattamente così, non tutti per lavoro sono costretti a sfruttare l’immenso mondo che è il web, ma molti non ne fanno a meno neanche durante la vita privata. Da questo – e da molto altro – nasce lo studio italiano  “Prevalence of Internet addiction: a pilot study in a group of italian high-school students”, pubblicato su  Clinical Neuropsychiatry  e firmato dal giornalista freelance Mario Campanella e dagli esperti (di origine professionale eterogenea) Federico Mucci, Stefano Baroni, Lucia Nardi e Donatella Marazziti.
Nel paper gli autori accennano all’Internet addiction disorder (IAD), cioè la dipendenza da Internet, che ormai coinvolge sempre più soggetti (non solo adolescenti – come si potrebbe pensare) legati fortemente all’utilizzo di Tv, siti web, social network e video game e ovviamente all’utilizzo sempre più frequente di smartphone e tablet, dispositivi che ci consentono di restare connessi contemporaneamente su diverse piattaforme.
I risultati emersi dallo studio – specificano gli stessi autori nelle conclusioni – sono in un certo senso limitati per il campione utilizzato, che è di soltanto 500 studenti provenienti da due istituti scolastici calabresi (un liceo classico e un istituto tecnico di Catanzaro). Sicuramente però, come afferma Campanella, è una fotografia realistica della società: “È abbastanza ovvio che una società virtualizzata veda sempre più coinvolte le nuove generazioni. È preoccupante, ma per noi non è una sorpresa, il dato sui possibili Hikikomori, che vanno dal 2 al 4%. Si tratta di casi non più marginali, ma espressione di un eremitaggio che va crescendo e che deve trovare delle risposte adeguate da parte della Comunità, nel suo insieme”. Dalla ricerca (effettuata tramite un lungo questionario somministrato a ragazze e ragazzi con un’età media di 15,9 anni) si evince, infatti, che il 4% del campione ha dimostrato di avere serie difficoltà in caso di disconnessione, con una propensione di attaccamento che ricorda la sindrome di Hikikomori, la patologia che vede circa 300 mila ragazzi italiani chiudersi totalmente al mondo reale. Il dato più importante, però, è che il 25% degli studenti nel campione ha manifestato serie difficoltà a disconnettersi da Internet. Un dato per tutti sembra essere allarmante: questo 25% si collega giornalmente a Internet per almeno 120 minuti. C’è però da sottolineare che il restante 75% ha dichiarato di non avere problemi a disconnettersi.
Campanella aggiunge: “Lavoriamo da tempo sulla dipendenza da internet e sulla sindrome Hikikomori. È un ambito che ci vede, con professionalità diverse, presenti nella ricerca e nella clinica. I lavori compiuti da Donatella Marazziti e Armando Piccinni, psichiatri dell’Università di Pisa, sono orientati a una valutazione clinica empatica sulle strategie di prevenzione e di terapia delle dipendenze non chimiche”. Per completare lo studio sono stati necessari tre mesi. “Abbiamo dapprima monitorato i due istituti scolastici, illustrando ai ragazzi il significato della ricerca. La somministrazione dei test è avvenuta con criteri rigidi e impenetrabili – sottolinea Campanella – . Abbiamo scelto due tipologie antitetiche, un liceo classico e un istituto professionale di Catanzaro, con derivazioni sociali eterogenee per avere un quadro composito della campionatura”. La raccolta dei dati è stata effettuata con il metodo Cape, cioè “rilevando i risultati ed eliminando scrupolosamente ogni dato alterabile”.
L’uso di Internet è davvero incontrollabile oggi? Campanella risponde che “diventa una deriva incontrollabile se tutto si muove secondo opzioni virtuali.  Il rischio di vedere una società Matrix, come dice Maria Rita Parsi, è concreto. Si può reimpostare una vita sociale che torni alla concretezza, anche nella economia del benessere.  In questo senso, i timidi ma continui ritorni all’agricoltura da parte di segmenti sempre più diffusi di popolazione inducono ad avere speranza.  A poter credere in un futuro che non sia esclusivamente dettato dalla società liquida”.
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