Gioco d’azzardo, non tutto è perduto

«Il 57% dei pazienti curati a Bad Bachgart per problemi di dipendenza dal gioco riesce a ritrovare stabilità e a condurre nuovamente una vita normale»: è questo uno dei dati più significativi della studio effettuato dall’Università di Innsbruck su 100 pazienti ricoverati negli ultimi anni nel Centro d’eccellenza dell’Euregio. La dottoressa Doris Thaler, che lavora a Rodengo, ritiene fondamentale restare in contatto almeno due anni con i servizi ambulatoriali dopo le 8-10 settimane di cura. «Se una persona arriva con problemi di gioco, noi cerchiamo di trattare anche le questioni correlate alla ludopatia, dalla dipendenza da alcol alla difficoltà a gestire i conflitti, fino ai debiti. L’importante é non mollare nel periodo successivo alla cura».
Il giocatore medio in cura ha 46,6 anni, nell’8% dei casi non riesce a rinunciare a slot e videolottery, nella metà dei casi il problema della dipendenza si trascina da sei mesi a cinque anni, il 78% fuma o è stato un fumatore e il 64% ha problemi di dipendenza o di abuso di alcol: è questa la prima fotografia che emerge dallo studio fatto dalla facoltà di psicologia sui pazienti ricoverati nella struttura d’eccellenza altoatesina che riesce ad eliminare la depressione e a «stabilizzare» quasi sei malati su dieci. La ricerca, che ha riguardato 100 giocatori patologici ricoverati tra il 2007 e il 2013, è stata condotta da Manuela Tosti, Salvatore Giacomuzzi ed Helmut Zingerle.
Il campione e la durata della dipendenza. L’età media dei pazienti considerati é di 46,6 anni. L’85 per cento è costituito da uomini e il 15 per cento da donne. Al 62 per cento dei pazienti è stato diagnosticato, alla prima visita, il gioco d’azzardo patologico, il 27 per cento soffriva di dipendenza da alcol, il 6 per cento di disturbi affettivi mentre il 5 per cento ha avuto altre diagnosi. Nel 47% dei casi la ludopatia durava da sei mesi a cinque anni, nel 38 per cento dei casi da 5 a 15 anni e nel 15 per cento dei casi superava addirittura i 15 anni.
Nel campione considerato il 47 per cento aveva anche una dipendenza da alcol e il 17 per cento beveva troppo. I pazienti di Rodengo sono nel 68 per cento dei fumatori e nel 10 per cento degli ex fumatori. Il 35 per cento ha sofferto anche di depressione, di cui il 22 per cento solo in alcune occasioni, il 7 per cento ha disturbi bipolari e il 6 per cento è recidivo. Il 22 per cento dei pazienti oggetto dello studio ha tentato il suicidio e il 32 per cento assumeva già psicofarmaci (la cifra sale al 41 per cento all’uscita dal Centro terapeutico).
Notevole l’impatto delle terapie sul livello di depressione dei pazienti. Al momento dell’ingresso in struttura solo il 12 per cento dei giocatori non è depresso, mentre al termine del soggiorno la cifra sale al 57 per cento. Le depressioni ritenute gravi scendono addirittura dal 27 al 2 per cento.
Secondo lo studio di Manuela Tosti & Co. quanto più giovani sono i pazienti e tanto più rilevanti sono i miglioramenti sotto il profilo psichico nel corso della cura. E quanto più depressi sono i giocatori al momento del ricovero e tanto più rilevante risulta il miglioramento al momento delle dimissioni.
Pur non esistendo ancora un dato scientifico c’è anche il rischio, oggettivo, di ricadute. Solitamente un terzo dei pazienti riesce a risolvere definitivamente il suo problema, un altro terzo oscilla costantemente tra guarigione e ricadute, e un terzo non riesce a risolvere il suo problema di dipendenza. «Dobbiamo considerare – conclude la dottoressa Thaler – che si tratta di una malattia cronica e per curarla al meglio dobbiamo cercare di coinvolgere anche le famiglie e consentire ai pazienti anche un reinserimento lavorativo nel tempo».